Come modelli di estrazione automatica di intenti entrano a far parte del processo di addestramento dell’assistente virtuale migliorandone la qualità.
“Hai già del materiale di partenza che possa esserci utile?”
All’avvio di un progetto di assistente virtuale, questa è una delle domande che più comunemente rivolgiamo al cliente, da cui spesso, di tutta risposta, otteniamo consistenti file di storici di conversazione.
L’assistente virtuale infatti viene non di rado introdotto per rispondere a problematiche fino a quel momento gestite da operatori umani e se le conversazioni sono finora state salvate e conservate, queste non possono che tradursi in esperienza di cui la nostra intelligenza artificiale può approfittare. Ciò che le serve, e ciò che spesso manca, sono dati etichettati: l’associazione delle espressioni in linguaggio naturale a intenzioni ben discriminate.
Come dunque l’Intent Mining può aiutarci per far sì che tale conoscenza venga utilizzata nel pieno delle sue potenzialità?
Per Intent Mining intendiamo un task che si occupa di estrarre automaticamente l’intenzione dell’utente. Nel nostro caso il modello analizza il testo delle interazioni che spesso si presentano sotto forma di botta e risposta utente-operatore. Attraverso un algoritmo di clustering, le richieste deli utenti vengono individuate e raggruppate per similarità.
Chi ha addestrato un chatbot o ha dimestichezza nel campo, avrà probabilmente già intuito i grandi vantaggi di un modello del genere. Tuttavia, se ciò a cui si mira è un addestramento di qualità, l’Intent Mining non costituisce altro che il primo step di un processo in cui, come sempre, macchina e umano collaborano e in cui l’ultima parola rimane la nostra. Il modello ci aiuta ad analizzare velocemente quantità di dati che sarebbe impensabile e terribilmente noioso affrontare manualmente e ci restituisce una proposta di training set che spetta a noi validare o modificare cum grano salis.
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